Da quando ha avuto inizio la guerra ucraina, le maggiori preoccupazioni, da un punto di vista meramente economico, si sono concentrate, come ben sappiamo sulle forniture energetiche, dipendendo la UE per circa il 40% dal gas e dal petrolio provenienti dalla Russia, con punte del 100% per alcuni Paesi (vd Ungheria e Slovacchia, ma non solo a dire il vero, guarda caso proprio quelli che oggi frenano sull’embargo, non permettendo alla UE di varare quella che si può definire “la regina di tutte le sanzioni”).
Ma giorno dopo giorno ci rendiamo conto che il prolungarsi del conflitto può essere causa di problemi, da un punto di vista anche sociale, ben maggiori.
Russia e Ucraina, infatti, coprono rispettivamente il 21% e il 10% delle esportazioni mondiali di grano tenere. L’Ucraina, da sola, vale il 15% delle esportazioni di mais. Molti Paesi, soprattutto quelli africani che affacciano sul Mediterraneo, ma anche altri, quali Indonesia e Turchia, dipendono dall’export ucraino.
Già la pandemia ha fatto crescere il numero dei poveri da 135ML a 276ML a livello globale in appena 2 anni: con la guerra si rischia di vedere questi numeri lievitare ulteriormente. Si calcola, infatti, chela mancanza di approvvigionamenti potrebbe far aumentare il numero dei nuovi poveri di ulteriori 47 ML di individui, concentrati, peraltro, in zone geografiche ben precise.
Il nostro Paese potrebbe trovarsi esposto ad un rischio doppio.
La nostra “dipendenza” dall’export di Russia e Ucraina si limita al 5% per il grano tenero, ma sale al 15% per quanto riguarda il mais e il 13% per i fertilizzanti. Per i semi di girasole si arriva addirittura al 46%. Possiamo ben immaginare cosa possa significare in termini di aumento dei prezzi non solo per la “produzione diretta” dei prodotti da forno, ma anche per la catena dei prodotti agricoli, per la quale i fertilizzanti sono indispensabili.
Il vero rischio, peraltro, è un altro.
Come già in passato, il crescere delle tensioni sociali nei Paesi nord-africani (in quei Paesi il consumo di pane è enormemente superiore a quanto succede nei Paesi sviluppati) potrebbe portare ad un forte incremento dei flussi migratori, con ulteriori conseguenze per il nostro Paese, forse il più esposto al fenomeno.
L’urgenza non è più soltanto quella degli aiuti, da quelli militari a quelli umanitari (nella riunione di ieri, che si è tenuta in “remoto”, tra i G7, a cui è stato invitato il Presidente Zelensky, si è parlato di un nuovo pacchetto da $ 24MD), quindi, ma anche quella di garantire la “catena alimentare”, in modo da impedire rivolte nei Paesi più esposti, con conseguenze che ben possiamo immaginare.
Intanto, oggi è il 9 maggio. Una data che ci ricorda una duplice ricorrenza.
Una abbiamo imparato a conoscerla: si celebra, infatti, a Mosca, la vittoria contro l’invasione tedesca della 2° guerra mondiale, con la solita parata militare sulla Piazza Rossa. Niente celebrazioni, quindi, a Mariupol, ormai città simbolo della resistenza ucraina e della distruzione che la guerra ha portato.
Un po’ meno nota, invece, la seconda: il 9 maggio 1950, infatti, il Ministro degli Esteri francese Robert Schuman fu il primo a proporre che l’Europa, a partire da Francia e Germania, unisse le proprie forze sull’utilizzo delle risorse strategiche, a cominciare da carbone e acciaio, ponendo le basi alla prima forma di integrazione Europea (la Ceca nata dal trattato di Parigi del 1951), che poi portò alla nascita della Comunità europea nel 1957.
Apertura all’insegna dell’incertezza per la settimana che si apre oggi, che fa seguito ad una tra le più difficili da inizio anno.
Chiusa Hong Kong per festività, Tokyo perde il 2,53%, mentre Shanghai si muove intorno alla parità.
I futures fanno pensare ad aperture ancora negative sull’Europa e a Wall Street, con cali che si aggirano intorno allo 0,80%.
Petrolio in leggero calo, con le quotazioni del WTI a $ 109,54 (- 0,32%).
Gas naturale invece in rialzo, oltre gli 8$ (8,132, + 0,87%).
Oro a $ 1.872 (- 0,62%).
Spread oltre i 200 bp. Situazione non semplice quindi per I nostri BTP, con il rendimento oramai stabilmente oltre il 3% (3,10% circa). Una percentuale che non si vedeva dal 2018, ai tempi del 1° Governo Conte. Lì, peraltro, i motivi erano ben diversi, legati quasi esclusivamente all’instabilità politica del momento e alla sfiducia degli investitori (oltre che ai dubbi dei nostri alleati europei) verso un governo giudicato non in grado di affrontare le difficoltà in cui si trovava il nostro Paese. Tanto per fare degli esempi, il bund tedesco era allo 0,50%, mentre oggi supera l’1,10%: tradotto, significa che lo spread era a 260 bp, ben più dei già tanti 200 bp in cui ci troviamo oggi. I bonos spagnoli erano all’1,5%, mentre oggi sono al 2.45%.
I motivi, quindi, non sono politici quanto, piuttosto, dati da fattori “tecnici”: in primis la BCE non compra più titoli, e questo, per un Paese con il debito pubblico a livelli altissimi come il nostro, pesa molto più che on altri. E poi la “presa d’atto” che dipendiamo molto più di Spagna e Portogallo dall’energia russa, e quindi l’eventuale embargo costerà più caro a noi rispetto a quanto potrà incidere su altre economie.
$ sempre in prossimità di 1.50 verso €.
Week end difficile per il bitcoin, con le quotazioni tornate praticamente ai livelli di gennaio ($ 33.573, – 3,46% questa mattina).
Ps: ieri abbiamo avuto la conferma che l’Afghanistan è tornato al medioevo. Dopo aver vietato l’educazione scolastica alla popolazione femminile, da ieri è tornato obbligatorio, per le donne afgane, l’utilizzo del burqa. Con il “suggerimento” alle donne di non uscire di casa se non ci sono lavori da svolgere fuori.